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The social psychology of organizations

Titolo: 

The social psychology of organizations 

Autori: 
Joanna Wilde
Casa editrice: 
Routledge, 2016, Pp. 224, £ 31.99 (Paperback)

Questo che potrebbe sembrare a prima vista un testo sulla psicologia sociale nelle organizzazioni affronta, in realtà, un tema specifico e di grande attualità: il tema è annunciato nel sottotitolo Diagnosing toxicity and intervening in the workplace, e non lascia adito a dubbi. Ma ciò che differenzia questo lavoro da molti altri che affrontano lo stesso argomento è il vertice di osservazione e la finalità operativa. Mentre esiste un’ampia e molto interessante letteratura sulla tossicità organizzativa letta dal punto di vista della psicologia clinico-organizzativa e della psicoanalisi, la psicologia sociale ha trattato poco questo argomento e, soprattutto, lo ha trattato quasi esclusivamente per descriverlo e non per offrire spunti di intervento. Ecco, dunque, emergere la finalità operativa del lavoro di Joanna Wilde, una finalità concreta, in cui si vuole assolutamente indicare al lettore non solo “cosa accade”, ma anche “cosa fare” di fronte a simili problematiche. E non a caso l’autrice si collega inizialmente al lavoro di John Dewey (1859-1952) e alla filosofia del pragmatismo americano, alla teoria dell’azione e, nello specifico, alla formulazione e all’applicazione di principi concreti e comprensibili all’educazione in senso lato.

Diviene dunque necessario sviluppare una vera e propria etica dell’azione nell’ambito della psicologia sociale delle organizzazioni. Partendo dal presupposto che il lavoro ha perso e sta perdendo la dimensione dell’umanità, gli psicologi delle organizzazioni hanno bisogno di mettersi all’opera al fine di entrare nel merito della tossicità del lavoro e “fare” qualcosa di produttivo, di efficace e che funzioni. Insomma, è necessario riparare le situazioni distrutte o distruttive, se prima non si è stati in grado di intervenire per prevenire!

E’ necessario comprendere le fonti del malessere, capirne l’evoluzione , ma poi mettere in pratica tutto ciò che sappiamo al fine di incidere sulla realtà organizzativa. Ecco perché “the book is about psychosocial practice in the workplace” (p. 1) e ciò chiama in causa l’elemento che l’autrice definisce attivismo intelligente e che segna tutto il percorso del libro. Un orientamento che è l’opposto della psicologia di laboratorio, della cosiddetta scienza pura che, al massimo, descrive qualche elemento di ciò che avviene ma manca di cogliere la complessità delle dinamiche lavorative e sicuramente non è interessata a dare suggerimenti applicativi – cioè a rispondere alla domanda: cosa fare? -.

L’attivismo intelligente dovrebbe essere applicato da chiunque – psicologi, consulenti, manager – operi nel mondo del lavoro al fine di renderlo migliore e più sano di come è e di come sta diventando. L’autrice è consapevole del rischio che corre, vale a dire di essere tacciata di scarsa scientificità, di essere naive, e così via: critiche che possono provenire da parte di coloro che vedono la psicologia applicata alla pratica come niente di più di un sottotitolo della psicologia vera, della psicologia pura. Per fortuna Wilde non si fa per nulla bloccare nel suo percorso da tali timori, ed il suo interesse rimane saldo nel voler afferrare il problema per intero e proporre strade di risoluzione.

La prima sezione delle tre in cui il testo è suddiviso tratta della trasmissione delle conoscenze in pratica, della situazione del cliente, delle sue reali possibilità di cambiamento, e dell’etica della pratica professionale. La seconda sezione ruota intorno alla necessità di sviluppare un modello integrato che renda conto del complesso mondo della tossicità organizzativa. Sono qui presi in esame i macro-fattori, i processi organizzativi, la dinamica dei sistemi, ma anche l’epidemiologia dello stress, differenziando quattro fonti principali di tossicità nel lavoro, e quattro micro-processi relazionali collegati ad esse. Nella terza ed ultima parte del volume Wilde ritorna all’apprendimento dalle esperienze e alla messa in opera di ciò che sappiamo al fine di “curare” le malattie del mondo del lavoro. Sono qui esplorate le tematiche della diagnosi organizzativa e tutti i meccanismi che – come dei sintomi – possono far capire in quale direzione di sta dirigendo lo sviluppo organizzativo.

In conclusione, come scrive l’autrice, il mondo del lavoro reclama uno stato migliore, e ogni persona (al di là del suo status e della posizione che occupa) ha diritto a poter vivere una vita di lavoro sana e soddisfacente.

Gli psicologi che operano nei contesti lavorativi e professionali hanno la possibilità – ma, ormai, direi l’obbligo – di intervenire con le loro conoscenze ed il loro saper fare per contribuire al risanamento delle realtà lavorative. Chissà se l’auspicio dell’autrice – che il suo libro possa contribuire a questo sviluppo – potrà essere tradotto, nel contesto italiano, in un concreto e migliore contributo della psicologia applicata alle risorse umane e alle organizzazioni.