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Il carcere in Italia

Il carcere in Italia

Se un extraterrestre piombasse in Italia e chiedesse lumi sulla situazione del sistema carcerario sarebbe molto difficile potergli dare qualche risposta che avesse un minimo di razionalità e di logica.

Iniziando dalla constatazione più semplice, il sovraffollamento, da decenni sembra che a questo “problema” non vi sia possibilità di dare una risposta. Il nostro extraterrestre, probabilmente, chiederebbe perché mai non si costruiscono nuove – moderne e più adeguate – strutture carcerarie oppure perché non si evita di mettere in carcere persone che hanno commesso reati di lieve o minore entità. Inoltre, sembra che esista da qualche tempo – non proprio da pochi giorni – un qualcosa che si intitola misure alternative e che, se funzionasse, eviterebbe la reclusione, consentendo il tentativo di rieducazione non in una istituzione totale alienante e separata, bensì nel corpo della società (non a caso, manicomi, carceri e cimiteri sono sempre stati costruiti lontano dai centri abitati, tanto per rimarcare la “differenza” tra sani e malati, giusti e ingiusti… vivi e morti).

La “soluzione” finora adottata è stata, invece, quanto di più irrazionale, iniquo, incivile e inutile possa esserci: al momento in cui la situazione scoppia – o in occasione di altri “eventi” – dalle carceri è fatto uscire un certo numero di detenuti (l’amnistia). Ciò è stato fatto in modo ricorrente – qualcosa di simile alle sanatorie in tema fiscale…

Un secondo aspetto riguarda il genere di vita che si vive nelle carceri. L’extraterrestre obietterebbe che per come sono oggi le situazioni carcerarie, in quei luoghi soprattutto si apprende il comportamento criminale, ma certamente non ci si redime (vedi l’altissimo numero di recidiva!). O meglio: la rieducazione e/o la ricerca delle “redenzione” – intesa in senso laico – è fatto squisitamente personale, non certamente supportato, innescato, invogliato dalla situazione di contenzione – contenzione, appunto, non rieducazione, in barba, naturalmente, ai dettami costituzionali (art. 27, Cost.).

Per far sì che una persona, un cittadino di questo mondo, viva in carcere una dimensione che possa aiutarlo ad uscirne “migliore” di come è entrato, è necessario organizzare – e far funzionare! – una serie di processi ben articolati, gestiti e monitorati. Tutto ciò passa attraverso metodi, tecniche, organizzazioni, strutture, possibilità, spazi fisici, modalità di vivere il tempo, contenuti, climi organizzativi, ma anche stili di leadership del vertice e della gerarchia che ha in custodia le persone detenute, e professionalità degli operatori.

Ed ecco che ci avviciniamo alle tematiche che mi sono familiari.

Il supporto psicologico, in carcere, praticamente non esiste, data l’esiguità di psicologi che sono impegnati in tale attività – e ciò vale, in genere, per l’insieme dei professionisti che dovrebbero svolgere una funzione di assistenza, sostegno e cura. Come insegna l’attuale momento del Covid-19, persino l’assistenza medica è ai minimi termini, sia come risorse impiegate, sia come spazi di operatività.

Alla mancanza di personale preparato a prendersi cura del detenuto fa riscontro il sottodimensionamento cronico della polizia penitenziaria (nell’autunno del 2020 i dati indicavano in oltre 4.000 gli agenti in meno rispetto alla “pianta organica”) – anche in tal caso il nostro extraterrestre chiederebbe Perché non si assumono altri agenti? Forse perché in Italia si ha la “piena occupazione” e quindi non si trovano persone disposte a fare l’agente di custodia? – e, come se non bastasse, vi è il problema della scelta, della formazione e del sostegno degli agenti – non meno del problema dei livelli retributivi che non nulla hanno a che fare con il genere di impegno che è richiesto all’operatore.

Come può un agente di polizia penitenziaria contribuire ad “educare” un detenuto se egli stesso è demotivato, oppresso, stressato, lasciato solo con le proprie fatiche e angosce, chiuso in una istituzione totale?

Si potrebbe pensare che, dopo tutto, almeno l’argomento controllo & contenzione funzioni bene nell’attuale mondo carcerario, ma così non è, come hanno dimostrato le rivolte del marzo 2020, come dimostrano le proteste pacifiche da più parti messe in campo, come testimoniano persone serie, come il magistrato Nicola Gratteri quando si chiede come mai non si faccia nulla per impedire che i detenuti abbiano i cellulari e che possano usarli in carcere. Una domanda che chiama in causa la gestione complessiva del sistema e l’etica professionale di coloro che sorvegliano, considerato il fatto che sembra che nelle carceri possano entrare oggetti proibiti di cui si fa commercio illecito.

Come accennato sopra, vi è poi il tema della leadership che chiama in causa lo stile di gestione, la mentalità, il modo di interpretare il ruolo del vertice, cioè del direttore del carcere e a scalare dell’intera gerarchia, fino all’ultimo agente che vive a contatto con il detenuto. Agente a cui non dovrebbe essere (implicitamente) richiesto di vivere una vita talmente malridotta da sperimentare una sorta di quasi-detenzione egli stesso.

Al fine di attuare una seria prassi di recupero e reinserimento nella società delle persone che hanno sbagliato e che stanno espiando la pena, ma che dovrebbero essere “recuperati” alla vita civile,  sarebbe dunque necessaria un’azione ben progettata, multilivello e multiscopo, arricchita da un seguito degno di questo nome – follow up – e condotta da equipe professionali retribuite a livelli adeguati, ben preparate su metodi ed approcci moderni e anche (e non per ultimo) realmente motivate all’impegno che è richiesto.

 

Andrea Castiello d’Antonio