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THE DANGEROUS CASE OF DONALD TRUMP

Titolo: 

THE DANGEROUS CASE OF DONALD TRUMP: 27 PSYCHIATRISTS AND MENTAL HEALTH EXPERTS ASSESS A PRESIDENT

Autori: 
Bandy X. Lee (Edited by)
Casa editrice: 
New York: Thomas Dunne Book (St. Martin’s Press), 2017, pp. XIX+360, $ 27.99 (Hardcover)

Donald Trump è un “caso psichiatrico”?

La domanda se, quanto e come Donald Trump sia un “malato di mente” sta rimbalzando nel mondo dall’inizio dello scorso anno, e il libro a cura della psichiatra Bandy X. Lee The Dangerous Case of Donald Trump, pubblicato lo scorso anno in USA, è un epigono di tale dibattito. Su Donald Trump molto è stato detto e scritto dal momento in cui ha preso il potere. L’esercito di coloro che lo ritengono unfit per gestire il ruolo di presidente è ampio, e centinaia sono stati i nomignoli che gli sono stati affibbiati da autorevoli quotidiani (come, ad esempio, The Washington Post): Donald the Donnie, King Lear, The Lying King, Cheeto Benito, Donald Chump, Donald Dodo, The Infuriator, Trumpty Dumpty, The Orange Mephistopheles, The Fraud of Fifth Avenue… tralasciando i nicknames meno educati. In realtà il problema dell’equilibrio mentale di Trump è emerso prima della sua nomina a Presidente degli Stati Uniti quando il 29 novembre 2016 tre psichiatri (Judith Hermann, Nanette Gartrell e Dee Mosbacher) inviarono una lettera a Barak Obama richiedendo che Trump fosse sottoposto ad una «full medical and neuropsychiatric evaluation by an impartial team of investigators» (un suggerimento che non fu raccolto).

Il libro è introdotto da Robert Jay Lifton, noto psichiatra e studioso di storiografia psicologica (ha tra l’altro svolto indagini sui medici che condussero esperimenti sui prigionieri nei campi di concentramento nazisti), che firma la prefazione, mentre il prologo vede la doppia firma della curatrice e di Judith Lewis Hermann. Segue l’introduzione di Bandy Lee, che è stata l’organizzatrice della conferenza Our duty to Warn, tenutasi a Yale nell’aprile del 2017, evento che ha posto le basi per questa “chiamata alle armi” degli operatori psy che ritengono pericoloso Donald Trump nel ruolo di presidente. Lee sottolinea il rischio, legale e professionale, nell’aver dato vita a questa pubblicazione, ma anche la necessità di non tacere e di rendere pubblica l’opinione di professionisti della salute mentale al fine di rendere un servizio alla collettività, sviluppando la consapevolezza delle persone.

Il testo presenta le opinioni espresse da ventisette psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti, psicologi e operatori della salute mentale e si sviluppa in tre parti: nella prima parte è analizzata e discussa (secondo diverse angolazioni) la figura del presidente madman, nella seconda si risponde alla domanda se sia lecito o non esprimere considerazioni cliniche e/o diagnostiche su un personaggio pubblico valutato in via indiretta, e la terza parte punta l’attenzione sugli effetti della presidenza Trump nella società, fino a ipotizzare l’esistenza del PTSD, cioè il Post Trump Stress Disorder.

Le due posizioni di fondo che sono espresse in queste pagine possono essere sintetizzate nella seguente alternativa: considerare Donald Trump un vero e proprio caso psicopatologico, oppure evidenziarne la pericolosità. Chi mette in evidenza la psicopatologia di Trump ne scrive seguendo diverse prospettive che ruotano intorno alla sua incapacità di distinguere tra realtà e fantasia e al suo dirompente narcisismo. Sono così evocate le fisionomie della malignant normality (Lifton), della sociopatia (Dodes), del temperamento ipomaniacale (Gartner), di uno stile di comportamento denominato gaslighting (Malkin) e dell’estremo e costante edonismo (Zimbardo e Sword), mentre in altri interventi ci si riferisce in modo diretto alle categorie diagnostiche del DSM-5 parlando di disturbi narcisistici, antisociali e paranoidi della personalità, fino a ipotizzare la presenza di forme di demenza. Numerose descrizioni del comportamento manifestato da Trump fanno poi riferimento a quadri di instabilità emotiva, tendenza a dire bugie e falsificare i fatti, negazione della realtà, grandiosità, bisogno costante di essere adulato, culto autoritario della personalità, ammirazione verso la tirannia, tendenze paranoiche, mancanza di senso etico e di empatia, difficoltà a prospettarsi le conseguenze future di azioni, de-umanizzazione (degli avversari), misoginia, razzismo e manipolazione. Il tutto produce una miscela tossica, nel quadro di una bully personality. Si tratta di opinioni fondate su comportamenti manifestati da Trump e su sue verbalizzazioni e dichiarazioni del genere «Potrei stare nel centro della Quinta Strada, sparare a qualcuno e non perderei neanche un voto!» (23 gennaio 2016)

La seconda parte del testo affronta il problema posto dalla Goldwater Rule, cioè dalla regola etica che l’American Psychiatric Association (APA) si è data al fine di impedire che si possa esprimere una valutazione o opinione psichiatrica su un personaggio pubblico senza aver effettuato una sessione di assessment con il soggetto e senza il consenso di quest’ultimo nel rendere pubblico il risultato. A questa regola sono contrapposte le opinioni di chi sente di essere chiamato a un dovere morale e civile che va ben al di là del codice dell’APA nel contesto di una situazione di emergenza, sottolineando inoltre che il primo cittadino degli USA non dovrebbe essere trattato in modo diverso da tutti gli altri cittadini.

A tali considerazioni si affianca l’opinione di chi non vuole esprimere alcuna diagnosi psichiatrica sulla persona, bensì propone una valutazione della pericolosità del soggetto in quanto esercitante la funzione di vertice del governo americano. Ma la domanda di base che risuona nel libro non è se il presidente sia “matto” oppure no, bensì se egli sia crazy like a fox, or crazy like crazy che, tradotto molto liberamente, si può rendere con “ci fa o ci è?”. Balza agli occhi l’utilizzo strumentale di alcuni atteggiamenti di Trump, ma permangono comunque dubbi sul fatto che egli si comporti in certi modi intenzionalmente, dato che numerosi segnali stanno a indicarne l’impulsività, l’irrazionalità e sostanzialmente l’incapacità di riflettere e di posticipare la risposta a fronte di stimoli esterni. Plausibilmente, la risposta alla domanda deve considerare la presenza in contemporanea di entrambe le alternative, cosa che certo non allevia le preoccupazioni dei cittadini del mondo.

Nell’ottica dell’influsso negativo che la presidenza Trump – the most dangerous man in the world – può avere sulla nazione alcuni hanno fatto notare l’incremento degli episodi di bullismo scolastico e di aggressioni a sfondo sessuale avvenuti negli ultimi tempi, mentre altri richiamano l’attenzione sul rischio di costruire una “nazione bipolare”. Né consola leggere che «un ampio studio di trentasette presidenti degli USA [dal 1776] fino al 1974 ha stabilito che circa metà di loro ha avuto una malattia mentale diagnosticabile, tra cui depressione, angoscia e disturbo bipolare» (p. 181).

Come scriveva Sigmund Freud, non si può curare un paziente in absentia, cioè non avendo con lui un rapporto diretto e sufficientemente continuativo; così si potrebbe affermare che non è possibile “diagnosticare” lo stato mentale di una persona da remoto. E, per farlo, sarebbe necessario utilizzare informazioni da più fonti, ben più di una sola e singola intervista clinica come da qualcuno è stato scritto. Ma, forse, non si può sempre aspettare il “dopo”: non si può lasciare che emerga un Hitler che prenda il potere e scateni guerre per poi uscire allo scoperto e dichiarare l’eventuale insanità mentale, o pericolosità, del soggetto.

Nel caso di Trump il dibattito vede la contrapposizione tra chi si fa mille scrupoli nell’avvertire il mondo della presumibile follia di un presidente (rinunciando a prendere posizioni criticamente esplicite), e chi ritiene invece che sia un dovere sociale ed etico evidenziare le disfunzionalità psicologiche che ripetutamente manifesta Mister Trump. Credo che non vi sia una speciale necessità di appellarsi alla psichiatria, o soltanto alla psichiatria (e in tal caso, ci si dovrebbe chiedere a “quale” psichiatria), per elaborare una riflessione sulle manifestazioni osservabili di Donald Trump nelle sue funzioni di presidente degli Stati Uniti. Alcuni autori di questo libro sono stati aspramente criticati da colleghi perché Trump non avrebbe precisamente confermato il numero minimo di sintomi per essere catalogato come “matto” nel quadro degli indicatori presenti nel DSM… A parte il fatto che il DSM non è l’unico sistema diagnostico oggi esistente (ve ne sono altri, come la recente seconda versione del Manuale Diagnostico Psicodinamico, il PDM-2, assai più sottili e precisi nella loro articolazione – il PDM-2 è presentato in questo numero di Psicoterapia e Scienze Umane), i tratti narcisistici del carattere possono prendere varie e diverse fisionomie, ed essere influenzati dai ruoli agiti, dalle condizioni ambientali e dalle pressioni sociali: per intendersi, nei momenti di crisi esistenziale, un homeless narcisistico avrà assai meno sostegni e rifornimenti di auto-stima di un capo di governo che intorno a sé ha delle vere e proprie muraglie cinesi a difesa del proprio precario equilibrio mentale.

Forse Trump non è malato nel senso di un “matto-di-strada”, ma abbiamo già da tempo imparato a conoscere la lucida follia delle persone “apparentemente normali”, la criminalità dei colletti bianchi, la silente psicopatologia del manager ben vestito ed educato, magari intrisa di “familismo amorale”. Sarebbe interessante dare voce a quegli psicoanalisti (come Otto Kernberg) che hanno trattato della leadership narcisistica, ai consulenti di management a orientamento psicodinamico che hanno esaminato le nevrosi del management e delle organizzazioni (come Manfred Kets de Vries), fino a giungere alle formulazioni recenti che ruotano intorno all’idea della Toxic Leadership. Una condizione in cui è riconoscibile la distruttività che una sola persona, collocata in un ruolo di vertice e di comando, può diffondere nell’ambiente intorno a sé. Si tratta di fenomeni che sono avvicinabili alle cosiddette “malattie del potere” (Hugh Freeman), dato che la gestione del potere è un grande detonatore di stati psicologici fragili o perversi. Tanto è vero che si studiano i casi di deragliamento della leadership, di evil leadership, fino alla figura del “thanatoforo” (Emmanuel Diet), il soggetto che, come dice lo stesso nome, si muove nelle organizzazioni come una presenza mortifera.

Non si tratta di figure retoriche né, tantomeno, di metafore, bensì di persone in carne e ossa che agiscono e determinano la vita altrui!

Vi è poi un’altra considerazione con cui si entra nel campo della criminologia. In questo campo esiste da tempo un’attività specialistica denominata profiling, che ha il preciso scopo di tratteggiare il profilo psicologico di un soggetto delinquenziale ignoto di cui si conoscono solo gli atti efferati (omicidi, stupri, violenze contro persone e/o cose). Nel caso di Trump, pur non volendo scomodare la psichiatria, e “leggendo” soltanto il repertorio (a dir la verità assai ricco) dei suoi atti e discorsi, si può legittimamente tentare di delineare un profilo psicologico. Si può dunque discettare sullo stato di salute mentale di Trump ma, forse, sono sufficienti i segnali emersi fino a ora – compreso l’exploit di grandiosità narcisistica racchiuso nella frase “Sono un genio!” – per segnalare la pericolosità sociale di soggetti di questo genere.

Infine, per dovere di completezza, sono da registrare le critiche che ha suscitato questa pubblicazione curata da Bandy Lee: è stata notata la ripetitività di numerosi interventi in cui gli autori citano le medesime fonti – spesso i tweet del presidente – e giungono a conclusioni simili, e il fatto che tutti gli autori partono da posizioni evidentemente precostituite, cioè sono di parte. Altri hanno affermato che la vera domanda dovrebbe essere un’altra: non cosa vi è di “sbagliato” nel presidente, bensì cosa c’è che non funziona in tutti coloro che hanno votato per lui. Per così dire, si dovrebbe passare dal diagnosticare Trump a una sorta di diagnosi sociale: una domanda che può riguardare molte persone anche al di fuori degli Stati Uniti.

 

Andrea Castiello d’Antonio

 

Questa recensione è stata pubblicata nella rivista Psicoterapia e Scienze Umane2018, Anno 52°. Numero 2. Pp. 324 – 327