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Nizza e le "vittime vive": la sindrome da stress post-traumatico

La catena del trauma non finisce mai… Quando accadono fatti come quello di Nizza, ma non solo (vedi il disastro ferroviario avvenuto in Puglia), oltre alle persone che perdono la vita e alle persone che rimangono ferite, in alcuni casi con danni irreversibili e permanenti, o con arti amputati, vi è una gran quantità di nostri simili che sono apparentemente salvi e sani, ma che portano dentro di loro i segni di ciò che è accaduto. 
I medici inorridiscono quando si trovano di fronte ai feriti che provengono da situazioni in cui sono state fatte esplodere bombe, si è fatto uso di armi da fuoco, o vi sono stati attentati perpetrati in modo inconsueto, come appunto è successo a Nizza la notte del 14 luglio 2016. Inorridiscono perché si trovano di fronte a esseri umani che hanno subito ferite e menomazioni “da guerra”, cioè qualcosa di completamente diverso da ciò che un medico di urgenza, di pronto soccorso, è abituato a vedere in relazione (ad esempio) agli incidenti sulle strade o sul lavoro. Ma che cosa accade per tutti gli altri? Per coloro che “si sono salvati”?
E’ la situazione delle vittime bianche, delle vittime vive…


 

Disagio da stress post-traumatico 

I sintomi da traumi, da situazioni altamente stressanti vissute da soggetti perlopiù inermi, impreparati, colti all’improvviso, e certamente non addestrati a fare fronte a shock di ogni genere, sono numerosi ma possono essere sintetizzati in quella che è stata definita sindrome da stress post-traumatico o Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD). La Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD), originariamente definita post-Vietnam Syndrome, fu introdotta in base alle segnalazioni provenienti dagli psicologi e operatori sanitari della VA - Veteran Administration: la sindrome fu connotata, tra gli altri, dal concetto di dolore incuneato rappresentativo di un’esperienza traumatica incapsulata nella mente del soldato che gettava un alone di gelo e insignificanza sul presente e sul futuro. 
E’ inestimabile il contributo che la psicologia clinica e le psicoterapie possono offrire non solo ai feriti, ma anche alle famiglie dei deceduti e dei feriti, così come è prezioso il supporto che può essere erogato a tutti coloro che “ce l’hanno fatto!” e che spesso – nei primi tempi dopo l’evento traumatici - non manifestano apparentemente alcun segno di sofferenza, confusione o ansia. Lo studio delle manifestazioni dei disturbi acuti causati dalle esperienze nei teatri di guerra – il cosiddetto combat stress – e tutto ciò che è collegato al trauma, alla ferita psicologica che il soldato riporta dalle esperienze operative, compresa la prigionia - sono parallele alle reazioni emotive e cognitive dei sopravvissuti: si tratta di affrontare, ad esempio, la gestione dei sentimenti di ansia e di paura che ritornano alla mente anche dopo mesi dall’evento traumatico, il significato del coraggio, e la percezione del rischio e del pericolo che si è corso.
Se l’angoscia e la sensazione di trovarsi ancora e sempre in situazione di pericolo rappresenta un lato della questione, l’altro lato è costituito dal sentirsi colpevoli per non aver fatto abbastanza per salvare la vita dei propri cari o, anche, delle persone sconosciute che un attimo prima della tragedia si trovavano casualmente al loro fianco. Questo aspetto è stato acutamente osservato dagli psicologi francesi intervenuti a Nizza i quali si sono trovati a dover gestire persone tormentate dalla sensazione di essere colpevoli per non aver compiuto un gesto di salvataggio, o per essersi istintivamente salvati loro stessi, lasciando altri a morire. Anche questo aspetto è purtroppo ben conosciuto dalla psicologia militare e dalla psichiatria militare: i soldati sopravvissuti portano con loro una sorta di marchio, non si danno pace per aver visto saltare in aria i loro commilitoni a poche decine di metri da loro, non capiscono perché loro “devono” vivere mentre altri, in un attimo, non esistono più… Qualcosa di molto simile – la colpa o la vergogna per essere sopravvissuti – è stata vissuta anche da numerosi reduci dai campi di concentramento nazisti e dai campi di detenzione dei prigionieri di guerra.
Aiutare le persone a superare le condizioni post-traumatiche non è un compito facile. Nella mente della persona i ricordi sono come “cose” concrete, il passato è l’oggi, si rivive continuamente ciò che è accaduto e la mente è invasa da tutto ciò. Il trauma va psicologicamente elaborato, e ciò richiede tempo, ma esso deve essere anche contenuto e confinato, e su tale punto lo psicoterapeuta si deve impegnare in termini supportivi, aiutando la persona a regolare e modulare le proprie emozioni. 
Ciò che è senza dubbio sconsigliabile è imboccare la strada del silenzio e dell’isolarsi in se stessi, o del fare finta di niente, riprendendo d’un colpo la vita di prima come non fosse accaduto nulla…